Fenomenologia della carnalità dei corpi: ROBERTA UNGARO

La fotografia è una questione di estetica, tecnica, opportunità, luce… Che altro? Beh, c’è chi come Roberta Ungaro ci mette in mezzo anche la filosofia.

Nata a Bergamo, studiosa di materie scientifiche e appassionata di quelle filosofiche, affina il suo interesse per la sociologia applicata alla comunicazione con un corso in Fashion Design alla NABA di Milano. Il suo soggetto principale è la luce, in particolare la sua capacità di creare volumetrie con i corpi e la loro carnalità. Le sue fonti di ispirazione vanno da Caravaggio a Epicuro.

 

 

Perché Milano è il tuo “grande amore”?

Per amare Milano bisogna viverla in ogni sua sfaccettatura. Milano è una gatta che non fa altro che ricambiare i sentimenti che provi per lei: se la odi ti regalerà sempre e solo giornate grigie come blocchi di ghisa e ubriachi distesi sui marciapiedi ancora umidi dalla pioggia, se la ami si trasforma in farfalle nello stomaco. Per me Milano è quell’ “amore” da cui sono sempre tornata, è la soddisfazione di raggiungere gli obiettivi che ho sempre avuto, è l’aspirazione sia a volere che a poter fare sempre qualcosa di più.

 

 

Sei un’appassionata di filosofia e una fotografa. Una cosa influisce sull’altra?

La mia formazione è stata estremamente razionale e prevedibile: ho scelto delle scuole che mi dessero una sorta di sicurezza per il futuro, ma ben presto ho iniziato a seguire l’istinto occupandomi solo di ciò che mi piace veramente. Al liceo durante le lezioni di matematica leggevo Platone, Schopenhauer e Svendsen sotto il banco, in Accademia durante le ore di modellistica divoravo le immagini di Vee Speers e mi incantavo a guardare il muro immaginando cosa avrebbe potuto fare Caravaggio se fosse stato un fotografo. Un giorno, casualmente, mi sono ritrovata una macchina fotografica in mano e ho capito che tutto quello che avevo letto fino ad allora, tutte le interpretazioni che tanto mi affascinavano sulla fenomenologia e sociologia della moda, sarebbero potute diventare qualcosa di concreto attraverso le immagini. Il pensiero comune porta a credere che il ruolo primordiale di un filosofo sia quello di svegliarsi al mattino e pensare; il fotografo non è altro che l’incarnazione moderna di tutti gli oratori, con la differenza che la prima cosa che fa dopo essersi svegliato è scattare una fotografia.

 

 

E perché proprio la macchina fotografica avrebbe potuto darti tutto questo?

La fotografia è potenza allo stato puro. E’ carnalità, è tridimensionalità, è velocità. Non ho mai creduto alla teoria che la sua bellezza sia data dall’immortalare un determinato moment, né a quella della ‘trasposizione della realtà’ in quanto tutto ciò che è immagine e visual è la concretizzazione del paradossale mondo che la persona che sta scattando ha in testa. La fotografia è come un palcoscenico vuoto dove tutti possono diventare chiunque ed esprimere qualsiasi cosa. Non credo nella naturalità del momento e nel saper cogliere l’attimo, la vera passionalità sta nel far capire tutto allo spettatore senza utilizzare nemmeno una parola. Un bravo fotografo si riconosce dalla sua capacità di utilizzare mezzi già esistenti, incastrandoli così bene da creare qualcosa che non esiste.

 

 

Oltre alle tue fonti d’ispirazione, nel tuo lavoro sono presenti riferimenti ad artisti o altri fotografi?

Qualsiasi tipo di arte nasce ispirandosi a qualcos’altro, ma forse più che ispirazione credo che sia una sorta di ammirazione. Fin da piccola ho sempre amato i dipinti di Caravaggio e Rembrandt, passione tramandata da mia madre. Quando ho iniziato ad avvicinarmi alla fotografia ho rivisto quello stesso tipo di luce nei ritratti di Hedi Slimane e non ho potuto fare altro che innamorarmene. Altri fotografi che mi affascinano molto sono Vee Speers, Mustafa Sabbagh e il loro surrealismo: il loro filo conduttore è una drammatica visione del subconscio che tutti abbiamo ma che in pochi hanno il coraggio di tirare fuori.

 

 

Lo scatto più “bello” o alla quale sei più legata?

Duane Michals, The Bogeyman, 1973. Nonostante la mia passione si avvicini prima di tutto alla fotografia di moda e alla ritrattistica, Duane Michals incarna tutto ciò che è emozione, immaginazione e mondo reale. E’ una sequenza di fotografie in cui è raffigurata una bambina che rivede in un cappotto appeso un uomo nero che la rapisce e la porta via. La testa di un bambino è ciò che di più bello e struggente si avvicina alla fotografia.

 

 
Roberta Ungaro exhibition at WOMADE #7
Sabato 1 Febbraio – Chiostri di San Barnaba (Milano)
 

 
Andrea Tata